Nicola Vukich 1972-2023 “In Memoria”

Nicola Vukich 1972-2023 “In Memoria”

Il Museo della Città e l’Amministrazione Comunale della Città di Livorno sono lieti di presentare “Nicola Vukich 1974-2023: In memoria”, mostra personale dedicata all’artista livornese allestita negli spazi della Sezione di Arte Contemporanea (Chiesa del Luogo Pio), visitabile dal 10 maggio al 28 luglio 2024 e con inaugurazione venerdì 10 maggio alle 17.00.

 “Si dice spesso che l’artista vede meglio e più in profondità dell’uomo comune e la formula calza perfettamente nel caso di Nicola. L’urgenza espressiva e comunicativa che lo divorava gl’imponeva non solo una costante introspezione, ma anche una ricerca continua del contatto con gli altri. E qui, come non esisteva distanza tra Italia e Africa, così non esisteva incompatibilità tra il presente e il passato.” Paolo Santoboni

Con l’inaugurazione della mostra sarà disponibile il catalogo “Nicola Vukich. Collettiva di un artista”, curato da Coop Itinera. Il volume (84 pagine, con immagini a colori) contiene testi a cura di Paolo Santoboni, con la collaborazione di Antonella Capitanio, Anna Rita Chiocca, Marco Collareta, Cristiano Giometti, e restituisce il breve, ma denso, percorso di ricerca compiuto per realizzare la mostra. Tra le pagine, si leggono testimonianze fornite con generosità sul conto dell’artista che – auspicano i curatori – possano essere rispettose del messaggio consegnato attraverso le sue opere.

Giorni e orari di apertura:
dal martedì alla domenica 10.00-19.00

Biglietti: – Intero 5 euro; Ridotto 3 euro

Si dice spesso che l’artista vede meglio e più in profondità dell’uomo comune. Applicata non di rado in maniera approssimativa, la formula calza perfettamente nel caso di Nicola. L’urgenza espressiva e comunicativa che lo divorava gl’imponeva non solo una costante introspezione, ma anche una ricerca continua del contatto con gli altri. E qui, come non esisteva distanza tra Italia ed Africa, così non esisteva incompatibilità tra il presente e il passato. Vista sullo sfondo di un simile atteggiamento psicologico, l’iscrizione al corso di beni culturali dell’università di Pisa la dice lunga su cosa Nicola ritenesse prioritario riguardo alla propria formazione come artista. Si trattava non tanto di acquisire una preparazione tecnica che in larga misura già possedeva e che comunque sapeva di poter perfezionare in ogni momento frequentando altri artisti e maestri artigiani, quanto di aprire gli occhi e la mente alla storia universale dell’arte intesa nell’accezione più ampia di espressione e comunicazione visiva. Sintomatico allora che, al momento di affrontare il compito impegnativo di una tesi di laurea vecchio ordinamento, il suo sguardo si sia orientato verso l’arte medievale, non contemporanea o al limite moderna, e si sia alla fine fermato su di un oggetto quanto mai singolare qual è in effetti il gran reliquiario a sarcofago di San Simeone a Zara.

Alle ragioni personali e familiari di questa scelta possiamo solo alludere qui. Più urgente è infatti per noi sottolineare come nella tesi di laurea di Nicola sia non tanto l’autore, lo stile, l’iconografia o qualsivoglia altro aspetto del sacro contenitore zaratino a costituire il cuore della ricerca, quanto piuttosto il nesso, fortissimo ma spesso sottovalutato, che in quel manufatto orafo si registra tra arte e reliquia. Due realtà antitetiche come la vita e la morte nella cultura attuale, ma strettamente intrecciate tra loro nella lunga tradizione culturale che in Oriente come in Occidente non ha mai dimenticato il rapporto genetico tra immagine e memoria quale lo si ricava dal più greco dei libri biblici, il libro della Sapienza. Non sappiamo se Nicola avesse presente quel testo epocale. Sappiamo però che molti aspetti della sua arte si possono leggere in parallelo con esso e più in generale con i principi estetici del medioevo cristiano. Si pensi anche solo alla molteplicità delle tecniche artistiche che Nicola ha praticato con indefessa curiosità fino a volerne inventare alcune di sana pianta. Non è il sistema rinascimentale delle “tre arti del disegno”, bensì quello medievale delle “diverse arti” la griglia d’accesso ad una simile versatilità. Da qui la rara intelligenza con cui l’artista maneggia i materiali, la sua attrazione per il fulgore dei colori e dell’oro, il ruolo centrale assunto dalla forma al di là di ogni riferimento alla realtà esterna, la cura quasi maniacale per la resa tecnica di quello che non certo in senso diminutivo chiamiamo manufatto. Come nei laboratori medievali del resto, anche nella sua “collettiva di un artista” la consapevolezza della specificità delle operazioni non esclude scambi, incroci, stratificazioni tra le arti. Fosse altrimenti, non riconosceremmo più in Nicola l’uomo dei viaggi in Senegal e la sua straordinaria apertura a tutte le possibili varianti della nostra comune umanità.

“Visibile parlare”, l’arte medievale costituisce un modello anche a questo riguardo. Come il latino cui s’accompagna a lungo, essa è una lingua universale e ciò non sembra essere sfuggito alla prensile coscienza di Nicola. Non a caso nella sua vasta e diramata produzione visiva sia le singole opere che i singoli raggruppamenti tipologici in cui esse si distribuiscono sono accompagnati da titoli precisi e brevi testi esplicativi in lingua italiana e/o inglese, il latino attuale. Si tratta di un costume diffuso presso molti artisti contemporanei, ma che in Nicola assume un sapore tutto particolare. Pensiamo soprattutto all’autoritratto che ci accoglie in mostra, un dipinto dal formato quadrato, nel quale una piccola figura umana è accompagnata dal nome proprio dell’artista. Al tutto s’aggiunge ab externo il titolo vero e proprio che suona “Omonimia”. La mente non può non rievocare i tratti tipici dell’icona bizantina, dove pure l’immagine di una persona o di un fatto storico, e la parola che l’identifica, convivono sulla stessa superficie, come nelle monete antiche e nelle attuali carte d’identità. Ciò che è proprio del nostro è semmai il tono giocoso dell’operazione, un tocco che non manca mai nell’opera di Nicola e che ci dice quanta leggerezza accompagnasse quell’uomo così provato dalla sorte quando poteva immergersi completamente nel mare dei suoi sogni.

Con mezzi diversi, lo stesso sguardo insieme serio e benevolo traspare nella produzione letteraria che Nicola ci ha lasciato in eredità. In essa il dato visivo si sposa con quello uditivo, restituendo alla parola detta o scritta lo statuto di linguaggio umano per eccellenza e, con ciò stesso, una centralità che va riconosciuta. Non parrà inutile ricordare che è proprio attraverso la parola che l’artista Nicola si ricompone in unità perfetta con il Nicola musicista. L’idea che vista e udito siano i sensi conoscitivi più tipicamente umani risale alle origini della filosofia greca, ma la messa in pratica di quell’idea è più antica e diffusa e conosce nello spettacolo di ogni tempo e paese
manifestazioni la cui importanza è ben conosciuta. Si capisce allora che le arti performative, e le stesse performances artisticamente intese, abbiano così profondamente coinvolto Nicola che alcuni dei più radicati ricordi di lui sono legati proprio a quella sua oggi mal documentata attività. Da precisare peraltro che ad essa dovettero contribuire in misura determinante due doti che il nostro ebbe in gran copia dalla natura, cioè un aspetto fisico di rara bellezza ed una gentilezza di modi che colpiva appena si aveva la fortuna di conoscerlo e frequentarlo.

Arte, letteratura, musica… L’uomo capace di trovarsi a suo agio in ciascuna di queste diverse forme espressive non è di norma un professionista o non lo è nel senso specialistico del termine. Può piuttosto essere definito un dilettante, purché si privi tale vocabolo di ogni retrogusto negativo e s’insista, al contrario, sulle positive implicazioni del dilettarsi e del dilettare. L’origine di questa particolare figura di intellettuale è di norma ricondotta al Sei-Settecento inglese o al massimo al Rinascimento italiano ed al suo culto del “cortegiano”. In realtà anch’essa va retrodatata almeno al medioevo monastico e trova nel benedettino Tuotilone, attivo nel monastero oltramontano di San Gallo tra il nono e il decimo secolo della nostra era, un illustre rappresentante. Stando alle fonti, egli avrebbe praticato con grande abilità le più varie tecniche artistiche, la poesia ed il canto liturgico, cosa intuibile anche dalla mirabile coppia di intagli eburnei riccamente incorniciati d’argento, che ci è pervenuta legata la suo nome. Tuotilone era un dilettante delle arti perché la sua professione era propriamente quella di servire Dio. Nicola non era un credente, almeno nel senso che si attribuisce normalmente oggi alla parola, ma anche nel suo caso la professione andava al di là delle arti in cui pure ci ha lasciato degli esiti straordinari. Coincideva col suo essere un uomo, un uomo a tutto tondo, che credeva fermamente nel precetto di non rinunciare a nulla di ciò che gli uomini sono chiamati a fare per lasciare dietro di sé un mondo migliore di quello che hanno trovato.

Marco Collareta, Cristiano Giometti

Dal catalogo dedicato “Nicola Vukich collettiva di un artista